Prologo

Pianeta in orbita alla stella λ Orionis


Il silenzio dall’alto del fiordo era assordante. Quando non c’è vento che sibila tra le rocce, o muove milioni di foglie nei boschi ad un ritmo così regolare da sembrare la risacca del mare, quando il mare è lontano mille metri sotto di te da non sentire il rompersi delle onde contro i sassi, quando non c’è neanche un insetto che ronza in cerca di un fiore che incrocia la tua strada, quando l’ultimo stormo di uccelli se n’è andato verso territori inadatti per aver perso il senso dell’orientamento e aver trovato morte certa, o hanno deciso di togliersi la vita sbattendo contro le pareti di roccia, allora nella tua testa emergono i pensieri più forti, quelli che non ti abbandonano mai, quelli peggiori, quelli incastonati nella tua anima e che il tuo fragile cuore non può sopportare più.

Un tempo il tuo paese era il più bello del mondo: colori, profumi, vita. Poi l’hai visto pian piano spegnersi come si spengono le luci degli uffici del tuo posto di lavoro prima di uscire e tornartene a casa. Niente più colori: il cielo grigio e la luce opaca della stella madre hanno spento il primo interruttore. Niente più profumi: la terra ha esaurito il suo nutrimento per i fiori e le piante. Anche gli insetti che trasportavano le polveri della riproduzione non ci sono più, annientati da un clima mai costante e sempre imprevedibile o contagiati da misteriosi agenti patogeni: ed ecco che un’altra stanza è stata spenta. Niente più compagnia: le persone si sono rinchiuse in casa a vivere una vita parallela sui "social" network, quasi come se la prima fosse troppo spaventosa e avessero preferito lasciarla di fuori scacciando una bestia minacciosa. Alcune, anzi troppe si affidano all’aldilà suicidandosi, altre cercano risposte di qua annullando la propria vera vita. E poi ci sono i pochi che accettano quello che sta succedendo e aspettano che il corso della storia faccia rinascere la speranza.

Dem Hull era uno di quelli che stavano per scegliere la morte. Quando ti guardi in giro e non vedi una via d’uscita, tu puoi essere in una stanza di due metri per uno senza porte oppure in una steppa sconfinata circondata solo dall’orizzonte, non riuscirai mai a uscire da quel posto. Dem cercava il conforto di altre persone, parenti, amici, amanti, perché tutti hanno bisogno di calore umano per trovare un senso in quello che li circonda. O almeno era quello che credeva, e non trovando calore nelle persone si sentiva con il cuore congelato. Se solo avesse capito che invece nessuno sapeva che l‘essere diventati come degli automi, fosse derivato proprio dalla distanza sociale, forse il senso di queste cose l’avrebbe per un secondo fatto rassegnare e dire “vaffanculo, morte! Questa non è la mia ora”. Se teneva gli occhi aperti, poteva immaginare quell’assenza di tutto come l’inferno, e se chiudeva gli occhi riusciva solo a concentrarsi sul vuoto che le persone e quel mondo avevano riservato per lui.

Qualcosa ruppe il silenzio. Era un sibilo, una vibrazione che percepiva sulla pelle, non dalle orecchie. Si stava avvicinando, allora si voltò e in contrasto con il cielo un punto nero stava emettendo un ronzio sempre più fastidioso. Quando arrivò sopra di lui riconobbe un drone. Esitò qualche istante a 4 metri sopra la sua testa, poi gli si posizionò di fronte. «Ciao!», dal drone uscì una voce femminile dal tono molto suadente. «Bellissimo panorama, non trovi?».

Dem non rispose, credeva fosse la voce di un computer programmato per dire cose belle, non che ci fosse una persona vera che parlava via radio in una sala di controllo.

«Non sei di molte parole, vero? Vedrai, le cose andranno meglio. Ci sono tante persone nel mio centro ricreativo ansiose di conoscere gente nuova, fare nuove amicizie, passare del tempo insieme.»

Dem non ci credeva, perché doveva essere vero se negli ultimi dieci anni non aveva incontrato nessuno per andare via insieme e conquistare il mondo? Continuava a non parlare. Anzi, quel drone iniziava a dargli fastidio, forse in quella natura morta l’ultima cosa di cui avesse bisogno era proprio un ronzio artificiale. Sarebbe veramente bastato sentire il canto di uccello in volo o il suono di uno sciame che danzava sopra l’erba, per credere che forse qualcosa poteva essere cambiato in meglio. Dem si alzò in piedi e guardò il drone dritto nella videocamera.

La voce continuò: «Io mi chiamo Kassia, e tu? Dai, seguimi che ti accompagno dagli altri.»

Dem allora aprì la bocca: «Kassia, posso prenderti per mano e farti vedere io un bel posto?».

Dem si lanciò nel vuoto afferrando il drone per uno dei pattini di appoggio e lo trascinò con sé per tutti i mille metri di caduta. Nell’impatto con le rocce il drone andò letteralmente in mille pezzi, Dem invece, convinto che le sue angosce sarebbero cessate con quel salto, non toccò terra ma continuò a cadere nel buio per l’eternità.

“Il paradiso non c’è nell’aldilà. Il paradiso ti è stato regalato, essere vivente, trattalo bene.”

Pianeta in orbita alla stella Altarena situata nel braccio Dheqa della galassia di Andromeda


Marquel Miso, l’addetto alla manutenzione della centrale energetica di Romun, si stava preparando ad un test di sicurezza. Erano le 31,30, e il suo staff era in posizione nelle varie stanze di controllo. Non c’era una buona connessione in prossimità del cilindro di fusione, e il nervosismo di Marquel era dovuto a tale problema piuttosto che all’imminente test. Si trovava nella stanza di controllo del cilindro, dalla quale poteva azionare i comandi di emergenza e spegnere tutto nel caso qualcosa fosse andato storto.

Erano saltate 4 centrali nella regione nell’ultimo mese, e la gente era stufa di stare senza energia così tanto tempo, non riuscire a ricaricare i propri device adeguatamente (c’era chi costruiva generatori di fortuna sfruttando la luce della stella Altarena ricavati da vecchi innaffiatoi da giardino), doveva mangiare cibo freddo (era però la stagione calda, quindi il problema era minore), doveva lavare i panni (oltre un mese non era più igienicamente possibile indossarli) e altri piccoli intoppi. Dicevano che erano state causate da cattiva gestione della Ditta proprietaria, la D.N.G.U sdo, che aveva acquistato il pacchetto dopo il fallimento avvenuto dieci anni prima delle varie società titolari, a causa della crisi economica globale. In realtà tante cose andavano a rotoli in quel periodo.

Uno studio di un’importante ditta nel campo dei sondaggi, aveva individuato come motivi di rallentamento dell’economia, l’ignoranza dilagante tra i giovani. La società stava iniziando a risentire della scarsa qualità dell’istruzione a partire dall’ultima generazione. I ministeri dell’istruzione avevano progressivamente cancellato gli esami di fine cicli perché da quando i bambini utilizzavano i device per svolgere i compiti, automaticamente con un’apposita app si riusciva a controllarne il rendimento e verificarne i risultati. Si dava per scontato che il progresso tecnologico, l’interazione tra persone e l’utilizzo di app social come AllDayLong fornisse in automatico, ogni giorno, una mole di informazioni utili per la crescita culturale e lo sviluppo dell’intelligenza nei bambini e ragazzi. Si fornivano i bambini sin dall’età della prima istruzione di device elettronici per imparare le nozioni base di scrittura, lettura e matematica ma questi li utilizzavano anche e soprattutto per connettersi al mondo con AllDayLong.

Tutti erano drogati di AllDayLong, anche e soprattutto i genitori, i quali ritagliavano pochissimo tempo da dedicare ai figli, in particolare quando si trattava di seguirli nei compiti e nello studio.

I cicli superiori sfornavano ancora ragazzi titolati, ma dal lato pratico non sapevano fare molto e non erano in grado di integrarsi in una reale situazione lavorativa. Le aziende assumevano personale con esami effettuati a distanza che puntualmente i candidati truccavano o completavano grazie all’aiuto di parenti o amici. Il metodo sembrava funzionare, perché nessuno metteva in discussione il sistema scolastico. Possedere un titolo aveva valore per l’85%, il resto si raggiungeva con i test di ingresso che erano considerati per lo più attitudinali o di cultura generale.

L’ignoranza collettiva causava ovunque problemi di ogni genere, più o meno gravi. Quando saltava la corrente a intere città perché il personale specializzato non effettuava correttamente le manutenzioni o non riusciva a utilizzare i software aggiornati per il controllo dei macchinari, il peggio che poteva accadere era una rivolta delle persone impossibilitate a connettersi alle smart TV per seguire AllDayLong e a ricaricare i propri device sempre assetati di energia.

Ma quando crollava una galleria perché non erano stati fatti correttamente i calcoli della resistenza della volta allora ci poteva scappare facilmente il morto. Essendo le strade e strutture annesse proprietà delle amministrazioni regionali o comunali, i dirigenti sviavano l’attenzione con sapiente divulgazione di notizie false su terremoti circoscritti, allagamenti o infiltrazioni.

Nessuno approfondiva mai la questione. Tutti credevano ciecamente alle amministrazioni o alle news che circolavano su AllDayLong.

Capitava anche che venissero pagati fior fior di milioni cugini non titolati di sindaci per svolgere mansioni di responsabilità, per fare in modo che le ricchezze rimanessero in famiglia e non rischiassero di “contaminare” persone “estranee”.

La crisi economica aveva creato buchi irreparabili nelle casse dello stato. Gli esperti della vecchia generazione, ancora con un briciolo di capacità derivante dal sistema scolastico pre-era tecnologica, avevano ipotizzato la causa del problema, anche grazie ai dati frutto di ricerche approfondite. Ma a quel punto era veramente difficile tornare indietro e far disabituare la gente ai dispositivi elettronici, a limitare l’uso delle app social e a ripristinare l’obsoleto ma efficiente metodo d’istruzione. Un’idea valida era quella di creare “scuole di livello professionale”, che stava a significare “tornate a scuola e studiate come si faceva una volta”. Il progetto era quasi pronto, mancavano le strutture adatte perché gli edifici scolastici non avevano ulteriori spazi, e il terrore degli esperti era proprio far costruire nuovi edifici dove preparare in maniera professionale i lavoratori da lavoratori non preparati dal punto di vista professionale.

Marquel si allontanò dal cilindro perché a quell’ora la sua amante Mira puntualmente si connetteva per mostrargli privatamente (privatamente anche ad altri 500.000 amanti virtuali) sull’app AllDayLong lo spogliarello quotidiano prima di coricarsi. All’auricolare il direttore del suo staff, Loboe Luro, gli comunicò che era tutto pronto per il test. Marquel, fuori dal silos che conteneva il cilindro, ordinò di effettuare le rilevazioni di tutti i dati dei sensori. Loboe, indispettito, poiché quella fase era già stata portata a termine ben tre tempi prima, rispose che tutti i dati erano ok. Marquel senza ulteriori preoccupazioni, poiché aveva trovato un punto in cui il video scorreva senza interruzioni anche se ad una qualità minore, decise per l’avvio del test.

Esso consisteva nel versare nel cilindro la quantità massima della sua capacità di minerale fino a quando i dati erano stabili. Poi togliere minerale poco a poco per rilevare il momento di maggior efficienza della macchina. Il minerale veniva bruciato sottovuoto da una miscela di gas incandescenti ad alta pressione. Le sostanze sprigionate dalla reazione chimica che consumava il minerale avrebbere alimentato l’effettivo generatore di energia, per il principio fisico chiamato “elettronizzazione spinta”. L’operatore Morgus si accorse che la valvola 45B mandava segnali discordanti, ma essendo collegato a AllDayLong per vedere la partita di ScuffBall dei 5 stati, non si accorse che i segnali non riportavano nulla di positivo. Trovandosi in prossimità del cilindro, Marquel avvertì una vibrazione strana nel pavimento del silos, che lo riportò per un momento alle sue responsabilità, e spense immediatamente con il bottone di emergenza il flusso di combustibile per il minerale.

Incazzato a morte, urlò nella ricetrasmittente che erano tutti un branco di mastrani da fattoria (animali grassi simili a bassotti ma più grandi con zanne simili a quelle di un tricheco).

Marquel doveva rendere conto al direttore della centrale, il signor Horas Hugh, che lavorava da un ufficio in centro città.

«Pronto?»
«Salve Horas, sono Marquel.»
«Ah Marquel, ha visto Mira questa sera? Accidenti, è un bel pezzo di figliola, non trova?»
«Certamente, non mi perdo mai uno spettacolo. L’altro giorno mi ha scritto per una chat privata, ma purtroppo sono a corto di crediti.»
«Se i conti quadreranno a fine mese, le darò un aumento, ci tengo che si svaghi un po’. Ma mi dica, come sta la sua compagna?»
Preferiva soprassedere a questa domanda, infatti diede una risposta veloce e cambiò argomento.
«Sempre il solito tran tran. Abbiamo fatto il test di sicurezza alla centrale stasera. Lo staff non era preparato adeguatamente, credo sia necessario un cambio con un personale più qualificato.»
«Intende cambiare tutto lo staff? Non è possibile cambiarne neanche uno, almeno in questo periodo. Ci vorrebbe molto tempo per formare un reparto tecnico per queste mansioni e il tempo non ce l’abbiamo. La gente è stufa di questi mancamenti di energia. La autorizzo a ritentare il test la settimana prossima. Sfrutti questo tempo per ripassare ogni singolo passaggio della procedura.»
«Signor Hugh…», quando non lo nominava per nome stava per dire qualcosa di scomodo, lui lo sapeva e lo sapevano i suoi interlocutori «Il test non può svolgersi a quest’ora. Di notte lo staff è sempre stanco…»
«Signor Miso, stia ben attento a quel che sto per dirle. Se il test fallisce in piena ora di punta e cadono le connessioni, il presidente mi manda a raccogliere mallegiani sull’isola dei Drots!»

Marquel non si sarebbe perso di nuovo per nessun motivo al mondo l’appuntamento con la sua Mira lontano dal suo giaciglio, e lo sapeva bene il signor Hugh che questo era il motivo per cui non voleva svolgere il test di notte.

«Non ci saranno errori, glielo garantisco perché la macchina è già super efficiente. E poi, un rapporto positivo lo so redigere per il suo presidente. Sa, ho un amico che mi passa ogni mese i nuovi accessi per le skin di AllDayLong. Ce n’è anche per lei.»

«Marquel, non mi faccia pentire di averle dato corda. Mi mandi le skin per i prossimi quattro mesi.»
«Sarà fatto», promise Marquel.

Marquel non riusciva lui stesso a tenere l’attenzione lontana da AllDayLong, figurarsi se poteva pretendere lo stesso dal suo staff.

La settimana successiva il test venne avviato. La sfortuna volle che il presidente dello stato fosse colpito improvvisamente da un virus intestinale molto forte, e un inserviente si trovasse lì mentre la crisi esplodeva. Tutta la scena venne trasmessa in diretta su AllDayLong (piuttosto che fornirgli assistenza, l’inserviente estrasse il suo device e filmò tutto) con opportuni editing e filtri delle immagini che esaltavano la ridicolaggine dell’evento.

Non c’era un solo tecnico che non fosse con lo sguardo sul proprio device, e il test ovviamente fallì, bloccando immediatamente tutta la centrale, e lasciando la città senza una particella di energia.

Il destino di Horas Hugh non fu così nefasto di quanto aveva immaginato durante la chiacchierata con Marquel Miso. Perché invece che passare il resto della sua vita a svolgere un faticoso e umiliante lavoro, venne travolto e ucciso da un mezzo pesante di qualche utente incazzato rimasto con il device senza energia nel momento più esilarante della storia di quella repubblica.

Pianeta in orbita alla stella Trappist 1


Davanti agli occhi della piccola Anya si mostrava un prato verde illuminato da una luce rosa candida, dove altri bambini stavano vivendo avventure magnifiche. Ora li vedevi a bordo di un veliero ad esplorare isole con piante da frutto dai mille colori, ora correvano tutti dietro ad una palla giù per un pendio e rotolarsi sull'erba quasi a tuffarsi in mare, oppure erano intenti a immergere la testa sott'acqua e vedere mille pesci di tutti i colori, inseguirli nuotando come un Dolmeno (mammifero simile al delfino) e per sbaglio farsi pizzicare da un Gogruto (crostaceo con due paia di chele).

Ma quando era ora di andare a fare pipí, si alzava dal tappeto impolverato, camminava scalza per il corridoio dal pavimento di legno stando attenta alle assi rotte e alle schegge, apriva la porta del bagno e si dirigeva al water, ingannando l'attesa della minzione sbirciando fuori. Quello che vedeva le entrava sotto forma di luce dagli occhi e passava al cervello che prontamente cancellava tutto per lasciar spazio all'idilliaco mondo del suo device e ignorare la realtà.

Cielo opaco, la nana rossa spenta come una ciliegia sopra una panna cotta andata a male. Alberi spogli. Case senza intonaco. Rumore costante di droni che pattugliavano e trasmettevano in diretta su ToDayToLive. Il pianeta che soffocava stava cercando in tutti i modi in suo possesso di liberarsi del boccone di traverso. I terremoti erano così frequenti che potevano scandire il tempo che passava, le aurore illuminavano a giorno anche la notte; quel bagliore si diffondeva nell'atmosfera e diventava fosforescente a causa dei fumi chimici delle centrali che erano costrette a bruciare qualunque cosa per fornire di energia i device per permettere a tutti di vivere in quel mondo fatato chiamato ToDayToLive.

Terminata l'espulsione fisiologica, la piccola Anya tornò al suo device. Adesso trasmettevano in diretta le immagini di una stanza nella quale alcuni bambini di secondo livello d'istruzione mangiavano tutto ciò che volevano da un tavolo imbandito, riempito costantemente da robot a 3 ruote che uscivano da un montacarichi. La piccola Anya scrisse alla mamma che aveva fame. Non era ora del pasto, quindi la madre dalla stanza di fianco, scomodamente seduta su una sdraio tutta bucherellata dagli eventi, le rispose seccamente di no, mentre la sua immagine virtuale sul proprio device si stava sottoponendo ad una seduta di restyling a capelli, viso e antenne.

Allora la piccola Anya affamata e distratta si alzò nuovamente dal tappeto e andò nella dispensa a cercare qualcosa da mangiare. Aprì lo sportello che cigolò fastidiosamente e analizzò come uno scanner quello che si trovava all’interno.

«Chiudi lo sportello! Che quando arriverà Amian porterà una busta piena di ortaggi!». Quando era costretta ad usare la voce per comunicare, si innervosiva parecchio.

«Schi mama.» Non aveva ancora imparato a parlare granché bene nonostante fosse al terzo corso di scuola.

Fece finta di chiudere la dispensa aprendo invece lo sportello che conteneva lo stoviglie, il quale faceva un rumore simile.

Nella dispensa si ricordò subito che non avrebbe trovato cose buone da mangiare. La mamma non le aveva mai spiegato perché, ma l’odore pungente che usciva da quel mobile era tutto tranne che invitante. Non era la prima volta che lo apriva quando le veniva fame, ma era diventata una routine, guidata anche dalla curiosità. La settimana precedente le pareti interne del mobile erano coperte da qualche decina di puntini neri, che si muovevano lentamente. Oggi praticamente non vedeva più il bianco del colore originale da quanti puntini neri in movimento ci fossero.

La sua attenzione si spostò verso un pacco di crackers, i suoi preferiti, che si ricordò avesse mangiato l’ultima volta molti mesi prima. Lo afferrò e tornò sul tappeto. C’erano ancora i bambini di prima, ma ora invece di mangiare si tiravano addosso e contro i robot il cibo e le bevande. Tranne uno. In un angolino, seduto per terra, c’era un bambino che guardava la scena con sguardo distratto e mangiava crackers di gusto, da un pacco dello stesso tipo di quello della piccola Anya.

La piccola Anya mise una mano nel pacco e tirò fuori un cumulo di briciole insieme a qualcos’altro, ma rimase talmente incantata dalle immagini del suo device e dal bambino seduto, che mentre ingeriva e masticava il suo snack provò lo stesso piacere. La Piccola Anya non aveva mai mangiato prima d’ora quel tipo di crackers, l’idea le si era innestata nel cervello poco prima, mentre guardava quei bambini abbuffarsi. Un cervello debole e immaturo è facile da plasmare, controllare e circuire.

Dopo alcune manciate di quell’intruglio la piccola Anya rigettò sul device che si spense per il corto circuito dovuto al contatto con i liquidi espulsi e fu colta da spasmi di natura epilettica per lo shock causato dall’interruzione improvvisa del video, che la fecero svenire sul tappeto impolverato.

La madre percepì l’odore pungente del vomito e al pensiero di dover pulire quello schifo sbuffò. Interruppe la visione su ToDayToLive si alzò e andò nel soggiorno armata di carta assorbente. Pulì alla buona tutto intorno alla piccola Anya, raccolse il device sistemandolo con cura sul tavolo e pulendolo accuratamente. Poi aprì lo sportello dell’asciugatore e lo sistemò all’interno. Programma 2, “Liquidi diversi dall’acqua”, preset 3 “Liquidi acidi” e avviò l’asciugatura. Dopo qualche minuto lo estrasse e lo mise nel suo slot del porta-device. Tornò in salotto pulì il viso della piccola Anya e attese il rientro di Amian prima di sollevarla e metterla sul divano.

Amian aprì la porta di casa ma non aveva niente con sé. «E gli ortaggi?» chiese la madre. «Nu otagi. Ho compato qualcosa per il devais. Li potterà babo.» «Dammi una mano con Anya, è svenuta ancora.» Amian era bagnato fradicio e puzzava come i gas che emana una fonderia.

La madre tornò a fare ciò che stava facendo prima. Amian si sedette sul tappeto ancora umido di vomito e accese il suo device pronto a vivere l’esperienza dei suoi nuovi acquisti: un’app di realtà aumentata che permetteva, inquadrando le stanze della propria casa, di poter cambiare colore alle pareti o all’arredamento e riempirli di avatar, i quali erano altri utenti che effettivamente iniziavano a vivere virtualmente in quella casa.

La piccola Anya non si risvegliò più. Rimase in stato di coma sul quel divano puzzolente e sporco fino a quando aria contaminata e parassiti ridussero nelle stesse condizioni il resto della sua famiglia, mentre i rispettivi device rimasero accesi e funzionanti per almeno due settimane e oltre.

Pianeta in orbita a sistema stellare sconosciuto a 1.560 anni luce dalla Terra.


Lo scricchiolio del ponte svegliò il sonno di Braman, e la prima cosa che notò era che i brividi di freddo non lo avevano abbandonato. Del resto era quasi buio, aveva dormito solo poche ore e la temperatura era andata via via scendendo costantemente. Si riparava con i rottami di un mezzo di trasporto urbano, dal quale poteva anche sbirciare i dintorni, dal momento che era provvisto di una parte trasparente. Di suo aveva un leggero ma comodo vestito costituito da una parte che gli copriva le gambe e l’altra per il torace, ma aveva le braccia nude. Per ripararsi quando usciva dai suoi rifugi di fortuna si ricopriva le braccia di una specie di grasso che si accumulava in riva al fiume quasi prosciugato, probabilmente portato a valle da qualche scarico industriale. Gli dava un bel senso di tepore, e finora non aveva riportato danni da avvelenamento o intossicazione.

I rumori della città defunta erano i soliti. Il calpestio dei Carbi (animali dalle lunghe corna appuntite, lunghi baffi e muso arrotondato) sull'asfalto aperto dalle radici delle piante rampicanti e dai terremoti, il sibilo della sabbia che si creava dalla lenta erosione dei palazzi in muratura, lo stridere degli ultimi vetri rotti diventati armi dei nuovi cacciatori. I suoi unici pensieri erano sempre gli stessi: la fame e come non danneggiare il pannello a energia solare per ricaricare il suo device. Ci voleva sempre più tempo per una carica al 50%, la luce della stella Radaloma non forniva più tanta energia a causa della cappa dei gas pesanti nell'atmosfera. Ma in quei pochi giorni in cui non era così opprimente grazie a venti che miscelavano la composizione dell’aria, la pioggia di azoto cristallizzato però gli impediva di stare sotto il cielo aperto.

Chi trasmetteva ancora qualcosa era qualche server situato chissà dove, che diffondeva contenuti preregistrati in loop da 40 cicli Ohr. Ogni tanto sulla home gli veniva notificata una stanza accesa in diretta: l'altro giorno si era connesso un certo Daimer Rotterghus, il quale era impegnato a raccogliere pietre fosforescenti dalla riva di un lago color arancio. Per poi strisciare le due pietre l'una contro l'altra e produrre bagliori color violaceo. E ad ogni scontro la videocamera subiva un interferenza. Braman si ricordava di tale esperimento quando da piccolo la sua maestra la signora Rodend allietava le lezioni con esperienze sulla conoscenza del mondo. Quindi più che stupirsi di quelle scintille colorate, provava un senso di nostalgia di quando il mondo andava un po' meno peggio, quando le piogge di azoto erano meno frequenti, quando i terremoti avvenivano solo dopo la caduta di meteoriti o quando la connessione era così potente che su LiveToMeet le dirette erano in 5 dimensioni.

Lo scricchiolio del ponte era dovuto a qualche branco di animali che percorreva la strada principale della città. Si stava facendo buio, e di notte bisognava rifugiarsi in qualche scantinato (se l'edificio non era troppo pericolante), o grotte scavate in tempo di guerra, o nei magazzini di stoccaggio del cibo prima che la crisi dei raccolti e il peggioramento delle condizioni climatiche portarono alla chiusura delle amministrazioni comunali costringendo la gente ad iniziare ad arrangiarsi da sé.

Di notte si alzavano venti fortissimi che dal mare portavano nell'entroterra dei gas generati dalla reazione chimica dell'acqua acida con i cavi metallici per la connessione dei dati tra devices posti sul fondo e ormai deteriorati e decomposti. Tali gas rendevano l'aria irrespirabile e dannosa per la salute. In quegli anfratti trovava riparo anche ogni genere di animale e insetto, o magari qualche altro essere intelligente che ci avesse ricavato la propria casa.

Uscì da sotto il ponte a fatica, non faceva molto moto del resto, risalì l'invaso del fiume ormai prosciugato e seguì una strada secondaria verso nord. Solitamente si rifugiava nel palazzo rosso vicino al grande albero di Molgh (frutti non commestibili per le persone, dalla buccia dura e rossa e l'interno asciutto e verdastro), ma già la sera prima aveva dovuto condividere lo spazio con uno sciame di Aspigi (grossi insetti volanti, innocui ma dall'odore assolutamente sgradevole, anzi pestilenziale). Quindi camminò qualche decina di metri fino a percepire il crepitio di un fuoco da un piccolo capanno in muratura in prossimità del vecchio parco giochi. Non c'era una porta ma un pezzo di lamiera dall'apparenza molto pesante e dai bordi taglienti. Prima di entrare controllò dal suo device se all'interno ci fosse qualcuno di connesso. La tacca verde con il simbolo di un altro device dava segnale 10, quindi la risposta era affermativa. Avviò la chat e disse:

«Voglio entrare, non ho un riparo per stasera.»
«A che percentuale sei?»
«54.»
«Dammene 34.»
«Ok.»
«Puoi entrare.»

Braman spostò la lamiera che non era poi così pesante ed entrò. Il vento iniziava a diventare una brezza sostenuta. Richiuse la "porta" e si avvicinò al fuoco evitando di prestare residui vegetali di cibo e resti di attrezzi bruciati. Davanti a lui c’era un uomo dal volto pulito, di colore grigio tendente all’azzurro, come i popoli delle zone del continente Arsh. Indossava un cappotto pesante dal quale spuntavano sulle spalle due escrescenze, e capì si trattasse della pelliccia di un animale che aveva due lunghe orecchie a forma di proboscide. Probabilmente, vista la pesantezza della pelle, proveniva dalle montagne. Alimentava il fuoco versandoci sopra un liquido da una bottiglia rigida. I piedi erano nudi, ma notò che erano completamente callosi, ricoperti di peluria grigia, estremamente sporchi. Sporco era anche il suo device che gli illuminava il volto con luci quasi psichedeliche, Braman non riusciva a capire che tipo di app stesse usando.

Con uno sguardo confermarono l’accordo stilato poco prima in chat, aprì l'app di trasferimento energia e passò il 34% della propria carica all'altra persona. Il trasferimento avveniva tramite l'utilizzo di onde elettromagnetiche cortissime. Poi in chat di nuovo scrisse:

«Se hai cibo ti do altri 10.»
«15%.»
«Va bene.»

Sapeva che il suo generatore di energia era merce rara. Quindi per un po' di carica, un po' di cibo poteva acquistarlo. Non mangiava da due giorni.

L'altra persona armeggiò nella sacca ricavata dallo stomaco di qualche bestia, ne uscì un vetro affilato che in un istante tagliò di netto la gola di Braman facendolo stramazzare sulla schiena.

La persona scrisse nella chat allo sconosciuto:
« Carica, generatore e cibo. Il giorno più bello.»



1.000 chilometri più a nord. Keirmas si muoveva veloce sulla strada ghiacciata a bordo del suo mezzo elettrico con pattini e ruota dentata. Stava imperversando una tempesta di azoto cristallizzato, ma riusciva a vedere dove stava andando grazie ai gas fluorescenti che venivano spinti dal vento. Aveva una maschera con respiratore artigianale rubata in un magazzino abbandonato dopo l’ultima guerra, nei pressi della città di Hoouie, del popolo dei Hoouimas. Uno dei popoli che aveva subito meno danni, perché non si può parlare di vincitori quando un intero pianeta viene ridotto ad un cumulo di rovine decimando la popolazione. Le armi chimiche avevano sconvolto l’atmosfera del pianeta. L’azoto normalmente contenuto nell’aria veniva spinto negli strati più alti dell’atmosfera da una differenza di carica tra i mari inquinati e i raggi cosmici che filtravano nella schermatura magnetica del pianeta, indebolita e contrastata dall’attività elettromagnetica artificiale degli esseri intelligenti che popolavano il pianeta. Una volta raggiunto temperature di congelamento ricadeva sulla superficie senza aver tempo di tornare gassoso, anche perché i piccoli cristalli rimanevano intrappolati dentro ad una pellicola di particelle di combustibile esausto espulso nell’aria dalle fabbriche di batterie per i device.

Sotto al casco del respiratore, Keirmas stava ascoltando con un dispositivo simile ad una cuffia, una trasmissione su LiveToMeet di un tizio che mostrava paesaggi paradisiaci dove passare le vacanze. Il device era assicurato ad un supporto sul cruscotto del suo mezzo, e ogni tanto guardava anche la strada. Non si preoccupava certo di incontrare o scontrarsi con altri mezzi, perché tanto non ce n’erano. Non aveva incontrato anima viva da giorni. Non ricordava neanche bene dove stesse andando, voleva solo scappare da quella tempesta andando nella direzione che gli diceva l’istinto e magari trovare un posto dove passare la notte. Ma quella era una delle città più devastate dalla guerra e degli eventi atmosferici, così voleva almeno raggiungere un posto più confortevole, se di confortevolezza si potesse parlare. Meglio allora parlare di cercare un posto che assomigliasse meno all’inferno di quello in cui si trovava dall’inizio di quella giornata.

Sul device scorrevano immagini di stupendi esseri di genere dell’altro sesso, cieli azzurri e spiagge bianche. Non credeva possibile che potessero esistere simili posti nel mondo. Infatti non esistevano, e lui lo sapeva, ma crederci era l’unica cosa che dava la spinta ad arrivare a fine giornata e svegliarsi in quella successiva. Neanche la speranza era un sentimento reale.

Di reale c’era il cadavere di un grosso animale parzialmente coperto da cristalli ghiacciati proprio in mezzo alla strada. La sfortuna o la sorte volle che proprio in quel momento sul device l’oratore stesse spiegando come raggiungere e dove trovare quel paradiso e quindi l’ultima cosa che voleva fare Keirmas era distrarsi guardando la strada. I pattini anteriori colpirono e affondarono nella carne dell’animale a folle velocità; di conseguenza il mezzo s’impuntò e l’inerzia gli fece fare una capriola in aria per poi terminare il volo atterrando sottosopra. Keirmas colpì l’asfalto con la testa e si spezzò il lungo collo all’istante. Rimase qualche momento privo di dolore e sensazione alcuna ma completamente immobile. Si ritrovò il device ancora davanti agli occhi, e mentre delle splendide danzatrici assaporavano un coloratissimo cocktail, davanti agli occhi gli si mostrò una tendina di sangue che lo trasportò nell’oblio.

Mille terre gemelle.


L’universo pullula di vita. Praticamente intorno ad ogni stella che vediamo esiste un sistema di pianeti. Da un paio fino anche a più di una decina. Fino a metà degli anni ‘90 non si era mai trovata la prova dell’esistenza di altri pianeti oltre a quelli del sistema solare. Si potevano fare solo supposizioni e affidarsi alle probabilità, e lasciare spazio all’immaginazione di scrittori, sceneggiatori, registi, poeti e cantanti. Anche con il più potente telescopio al mondo non è possibile vedere un piccolo corpo celeste che non brilla di luce propria. Per quanto possano essere molto riflettenti e brillanti come ad esempio i nostri Venere, Giove o Saturno, ad una distanza di qualche anno luce tali corpi celesti diventano invisibili.

Poi però avvenne che un team di astronomi svizzeri riuscì a capire come individuare dei pianeti intorno ad una stella. Quando un pianeta transita davanti al proprio sole, un pochino ne riduce la luminosità, e questa variazione può essere rilevata e quantificata da strumenti in possesso agli scienziati. Oppure se si individua il movimento irregolare di una stella attorno ad un punto fisso, allora questa oscillazione è dovuto alla presenza di un altro corpo in rotazione attorno ad essa. In 35 anni da quel giorno sono stati scoperti migliaia di pianeti, giungendo alla conclusione che ogni stella nell’universo è al centro di un sistema di corpi celesti, la maggior parte sono pianeti, ma spesso sono asteroidi, polveri o comete. Solo una piccola percentuale di questi comunque ha le condizioni ideali per ospitare la vita e su cui possano svilupparsi esseri intelligenti.

L’universo è vecchio, la vita non è rara. Forme di vita hanno avuto modo di svilupparsi dappertutto prima da esseri unicellulari in grado solo di nuotare in acqua, poi evolversi in esseri animali più grandi e infine sviluppare intelligenza, fino al punto in cui inesorabilmente portano alla rovina del pianeta che li ospita per l'eccessivo sfruttamento delle risorse. Esistono quindi infiniti pianeti con vita intelligente e infiniti pianeti con i resti di una ex vita intelligente ormai estinta che ha distrutto la propria casa.

Il sogno di Julia

Pianeta Kepler 2565b


Gli occhi di Julia si aprirono di scatto, e il buio della sua incoscienza si riempì del nero della camera da letto. Un nero sfumato dalla luce verde del display della sveglia elettronica. Il corpo lo sentiva immobile, le palpebre non sbattevano, non sentiva nemmeno il proprio respiro o quello del suo animale domestico. Temmi era probabilmente avvinghiato alla coperta della sua cuccia che riposava. Era dormiglione e fifone, ad ogni minimo rumore dell’esterno se ne andava a nascondersi nel suo giaciglio. A volte si arrampicava sul soffitto fino alla grata di ricambio aria e se ne stava lì quasi coprendola del tutto.

Julia si era addormentata con il sonaglio di legno sul terrazzo che suonava come un’orchestra diretta dal dio del vento in persona, ma non sentiva nemmeno un debole sibilo di quello che poteva essere un soffio d’aria che filtrava dalla finestra con gli arrugginiti infissi metallici. Tutto era quieto. Non si accorse immediatamente di essere dentro ad un sogno; si accorse di essere viva per un brivido che le corse sulla schiena. Ad un certo punto, a rompere quel momento congelato nel tempo, fu una debole luce bianca che filtrava dalle imposte: saranno state le nuvole a lasciar spazio alla luce della luna più vicina. Senza spostare le coperte, senza muovere un muscolo, si sentì trasportare alla finestra per sbirciare di fuori, sembrava potesse spostarsi nello spazio solo grazie alla forza della mente e delle sue sensazioni ed emozioni. La curiosità la portò a recarsi in direzione della luce. E quello che vide la trasportò di nuovo nel letto, questa volta sotto alle coperte. Ciò che la mosse era la paura. Non era uno dei satelliti naturali del suo pianeta che vide di fuori, ma sempre dal cielo era una stella luminosissima che le puntava direttamente negli occhi, nella testa, infatti per quanto fosse intensa non illuminava le case intorno o la strada. Sembrava solo diretta a lei.

Julia, da sotto le coperte, senza l’impiccio del proprio corpo, immaginò un posto ancora più sicuro della sua camera, e all’improvviso venne inondata da un profondo senso di tranquillità, sembrava di percepire l’abbraccio di sua madre quando era appena venuta al mondo e luci, rumori, freddo la minacciavano in questo mondo esterno rispetto a quel posto magico e confortevole che è il ventre materno. In verità era abbracciata a qualcuno, ma non era sua madre. L’odore che sentiva dagli organi olfattivi ai lati della testa era qualcosa di completamente nuovo. Allo stesso modo era insolita quella sensazione di protezione che si prova quando si è a contatto con qualcuno di cui ti fidi a tal punto da dargli in mano la propria vita. Era infatti particolare provare qualcosa del genere con qualcuno che non fosse la propria madre, non era neanche usanza abbracciarsi con nessuno nel luogo dove viveva. Questo profumo era simile a certi aromi che aveva sentito da piccola camminando per la natura, nei prati che erano ancora verdi e i fiori ricchi di colori, misto a quell’odore lievemente salato e umido che raggiunge i sensi quando si passeggia su una spiaggia di ciottoli in riva al mare. Era completamente a suo agio, si sentiva protetta e serena come solo da piccoli ingenui e senza pensieri si può essere.

Ora si trovava sempre nella sua camera da letto ma adesso quella luce dal cielo riusciva a illuminare debolmente come una fioca candela l’ambiente intorno e capì che di fianco a lei c’era un essere dall’aspetto diverso rispetto agli altri generi del suo pianeta. Non riusciva a vederlo in viso perché si trovava con la testa appoggiata al suo petto e non poteva muoversi, ma in quel momento non se ne preoccupò, voleva che quella sensazione durasse per sempre, così senza un movimento, senza un rumore, solo due respiri che scandiscono il passare del tempo. Un tempo fermo a quegli istanti che si ripetevano sempre da capo.

Quel profondo senso di leggerezza, candore, la svegliò di soprassalto. Era giorno, sentiva la pioggia sbattere contro la finestra, e l’odore del cesto dei panni da lavare la riportò al consueto tran tran quotidiano. In quel momento non ricordava nulla del sogno, nemmeno di aver sognato. Non aveva fame. Si alzò dal letto, si mise qualcosa addosso e riprese subito a lavorare al suo terminale. Il computer era formato da uno schermo abbastanza ingombrante, 70 cm di larghezza per 1 metro di profondità, ed emanava un calore e ronzio che le bastava per scaldarsi senza ricorrere ad altre fonti di calore, come la stufetta a olio di Numara (una specie di foca) o il sistema centralizzato dell’edificio a energia elettrica.

Per interagire con lo schermo, aveva una tavoletta elettronica con un grande schermo di vetro da 14 pollici, simile ai device portatili su cui seguiva la realtà fittizia sull’app PlanetBook. Toccando i simboli sulla tavoletta apparivano scritte nel monitor e poteva accedere alle informazioni che doveva elaborare per il suo lavoro.

Il suo era un piccolo appartamento abbastanza sgombro da mobilia, con le pareti vuote. Aveva una sola apertura verso l’esterno la quale era una porta finestra che dava su un terrazzino. I pochi mobili che aveva erano una scrivania sulla quale si nutriva anche, un piccolo angolo cottura in cui cuoceva il suo cibo, che era semplice da preparare, e quasi sempre lo stesso, ma molto colorato e profumato. Non aveva papille gustative tanto evolute ma un’ottima vista e un ottimo organo uditivo e allo stesso tempo olfattivo. Nutriva la propria mente con le sensazioni del cibo, perché non c’erano tanti altri modi di svagarsi nella sua società. Era un mondo difficile, i cattivi erano dappertutto. Se ne stava sempre rintanata in casa, e si distraeva con PlanetBook.

PlanetBook era un continuo di brevi video che mostravano la vita di altre persone che svolgevano le più disparate attività. Dalla quotidianità di fortunati abitanti di case bellissime in posti paradisiaci, a camere fisse su qualcuno che lavorava al computer, fino agli atti criminali e violenti delle fazioni che controllavano i territori. Gli utenti potevano commentare liberamente e spesso si accendevano dibattiti che non portavano mai a nulla. L’80% dei contenuti erano falsi, nel senso che non rispecchiavano la realtà. Anche i notiziari più accreditati si inventavano le notizie e creavano immagini e scene come fossero quelle di un film. Tutti ne erano a conoscenza ma a nessuno importava, stare tutto il giorno a guardare PlanetBook era l’unico modo per tirare avanti in un mondo marcio. Marcio era l’animo delle persone e marcio era il pianeta che li ospitava, inquinato a dismisura e sfruttato fino all’osso. Quel pianeta era ormai allo stremo e presto in qualche modo si sarebbe liberato dei parassiti.

PlanetBook si installava su un piccolo apparecchio elettronico pesante poco meno di 500 grammi. Si interagiva con esso al tocco e aveva una batteria con durata di quasi una settimana. Per ricaricarlo non era necessario collegarlo ad una linea fissa di corrente elettrica, ma bastava accendere un’antenna di cui erano dotati tutti gli appartamenti e questa avrebbe inviato l’energia necessaria sotto forma di onde elettromagnetiche che nell’arco di una notte avrebbe dato al device la carica necessaria per un’altra settimana. Probabilmente queste onde dovevano essere abbastanza intense per non essere propriamente indicate per la salute, ma sembrava che a nessuno interessasse anche quando qualcuno sollevava questioni nei gruppi di discussione di PlanetBook.

Temmi era insolitamente agitato quel giorno. Saltava tra tutti i quattro muri e a volte anche sul soffitto alla caccia di qualcosa, forse qualche insetto, o magari qualche spiffero d’aria, o anche qualche vibrazione e rumore proveniente dagli altri appartamenti. Quando dopo qualche ora si calmò saltò sulla scrivania di Julia per farsi accarezzare il corto pelo che aveva sulla testa. Aveva fatto fatica e sudava e poco dopo si addormentò appoggiato al terminale. Julia continuò il suo lavoro coccolandolo con una mano, e mentre gli asciugava le secrezioni dal dorso con uno straccio in quel momento le tornò in mente il sogno di quella notte. Ripercorse tutte le sensazioni provate e cercò di mettere in ordine le idee, però il risultato fu l’esatto contrario. Ogni emozione che riportava alla mente le accendevano mille altre luci in camere nascoste della sua mente iniziando a formulare pensieri e rivivere fatti del passato oppure inventati come se stessero accadendo in quel preciso momento. Si rese conto che il sogno aveva avviato come un motore una zona del suo cervello finora spenta, e da quel giorno avrebbe visitato spesso quelle stanze alla scoperta dei loro segreti.

Influencer

Pianeta Terra, anno 2035


Silvia, un po’ disorientata diede un’occhiata al Watch al polso che mostrava l’ultima cosa che aveva guardato prima di addormentarsi, una videocamera puntata nella stanza della sua migliore amica Eva che ora faceva ginnastica in diretta su DayBreak. Eva viveva per trasmettere in diretta la propria vita. Toccò lo schermo per controllare le notifiche, si stropicciò gli occhi e mentre con il dito scorreva gli aggiornamenti di stato dei suoi amici, si soffermò sul messaggio di Cristian che esaltava la propria nuova fuoriserie: “sfrecciare ai 200 km/h per il centro di New York con questa bomba rossa è qualcosa che ti fa salire l’adrenalina alle stelle: nulla in confronto a quando ho fatto la discesa a uovo con gli sci sul k2!”.
«Grandissimo Cri.» Commentò ad alta voce con un tono simile a quello che si usa normalmente per chiedere all’assistente vocale di accendere la luce.

Il citofono suonò. “Oh meno male, temevo non arrivasse prima di mezzogiorno” pensò. Si alzò dal divano letto tirandosi dietro il lenzuolo rimasto agganciato al suo piede destro nudo e si avvicinò alla finestra per avvisare il corriere. Viveva al secondo piano di un palazzone nella periferia est di Milano, il quale offriva come panorama altri venti palazzoni tanto alti da oscurare il cielo quasi. Non che quel grigio con sfumature bluastre fosse bello da ammirare, però almeno non era come essere rinchiusa in un bunker dove invece preferivano vivere i suoi genitori.
«Spinga il numero 2 nell’ascensore.» Urlò senza neanche mettere la testa fuori. Sì, perché due cose reali le aveva imparate sulla propria pelle da quegli ultimi anni bui:
1) non uscire mai di casa;
2) se proprio devi uscire di casa, fallo con impermeabile, mascherina con filtro monouso, ombrello di plastica, sacchetti usa e getta copri-scarpe, non avvicinarti a meno di 10 metri dalle altre persone, gli animali tenerli alla larga.
2bis) vale anche stare il più possibile lontani dalle finestre: la luce visibile del sole non passa quasi più dalle nubi dense di rifiuti chimici, ma i raggi UV quelli sì che passano. Eccome.

Il signore sugli oltre settant’anni zoppicava vistosamente e l’affannoso respiro si poteva sentire fino a oltre il terzo piano, nonostante indossasse un vecchio casco riportante uno sbiadito numero 46. Senza dire niente aprì il portone spingendolo con la spalla destra mentre faticosamente reggeva un pesante pacco. Silvia udì il rumore dell’ascensore che prima scendeva e poi saliva al suo piano. Sbirciò dallo spioncino per assicurarsi non ci fosse nessuno e quando si aprirono le porte corse sul pianerottolo a recuperare il pacco. Era pesante, soprattutto per lei, giovane e agile. Infatti non lo sollevò neppure, lo spinse dentro casa facendo arrotolare lo zerbino su se stesso e facendo scappare qualche piccola blatta dal proprio giaciglio. Sbatté la porta di casa e andò nell’angolo cucina a cercare delle forbici. Nella foga del momento, muovendo velocemente le mani nel cassetto incontrò un coltello per il formaggio e si tagliò un dito della mano destra. Senza preoccuparsene continuò a rovistare fino a individuare con la coda dell’occhio l’utensile sul piano di lavoro sotto ai suoi occhi. Le afferrò e si diresse verso il pacco. Tagliò lungo la linea centrale di scotch e spalancò i lembi del cartone. Latte a lunghissima conservazione, frutta annerita e pesta, pane duro, burro sciolto, trucchi sparsi tra gli alimenti. Afferrò un paio di boccette colorate e andò in bagno a truccarsi allo specchio, più che altro per nascondere ulcere e ustioni sul viso, conseguenze dell’essere rimasta chiusa fuori casa per una giornata intera qualche mese prima.

Dopo pochi minuti accese lo smartphone, scelse uno sfondo raffigurante un bellissimo salotto con grandi vetrate sul mare, arredato in stile antico e avviò la diretta su DayBreak: «Buongiorno care amiche, questa mattina mi sono svegliata tardi, ma per fortuna il sole e il mare mi hanno salutato con un sorriso!». Silvia continuò per più di un’ora a raccontare la sua splendida vita fatta di paesaggi digitali e amici virtuali, mentre nel frattempo le formiche avevano iniziato a razziare il cibo che era rimasto nello scatolone appoggiato sul pavimento.

«Silvia sei bellissima.»
«Silvia! Amazing Make Up!»
«OMG Silvia, il sole riflesso nei tuoi occhi li accende di felicità!»
«dove sei mi piacerebbe essere con te sei un sogno contattami vediamoci come ti chiami»
«Sono anch’io in vacanza tesoro! Zanzibar e domani si vola a Rio!»
Questi e altri commenti illuminavano la stanza dallo schermo dello smartphone come se fossero dei flash sul red carpet rivolti alla diva di turno mentre scende dalla limousine.

Terminata la diretta, Silvia si sciacquò immediatamente la faccia. “Noi attrici siamo belle anche acqua e sapone” pensò super convinta. In realtà odiava truccarsi ma faceva parte del suo lavoro. Ogni diretta era sponsorizzata e gli influencer venivano pagati in moneta virtuale da riutilizzare sullo stesso social per acquistare i beni di prima necessità. Quella mattina era riuscita a guadagnare a sufficienza per ordinare un nuovo pacco di alimenti che puntualmente faceva andare a male più della metà. Si ricordò dello scatolone in soggiorno e senza neanche accorgersi dell'effettiva presenza degli insetti prese il veleno spray dal ripostiglio e spruzzò a caso da più di un metro di distanza. Poi raccolse un cartone del latte, lo aprì e lo tracannò in pochi sorsi. Le altre confezioni le appoggiò sul tavolino del soggiorno e il resto lo spinse sul terrazzo. Ripensò un attimo al pane duro, allora tornò a recuperarlo, lo lavò dalle formiche sotto l’acqua corrente in cucina e iniziò a sgranocchiarlo seduta sul divano ormai ridotto a brandelli dai suoi gatti che mesi addietro convivevano con lei. Accese la smart TV e passò il resto della giornata sintonizzata su serie usa-e-getta di pessima qualità mentre guardava incessantemente lo smartphone. Non si rese conto neanche che iniziò a piovere e avendo lasciato la porta finestra aperta l’acqua inquinata bagnò la zona cucina e il pavimento fino a quasi il soggiorno. I suoi gatti erano morti dopo che per una notte intera li aveva dimenticati sul terrazzo sotto una delle peggiori piogge acide della stagione. Due giorni dopo, li trovò agonizzanti e dovette sbarazzarsene.

Silvia si addormentò sul divano guardando la sua amica Eva su DayBreak che dava consigli su come prendere sonno più facilmente. Con lei funzionava alla grande, ormai tutte le sere si addormentava così.

Tutte le sere uguali lasciavano spazio l’indomani a giornate tutte uguali.

Il dott. Alec Woodrow

Columbus, Ohio, Pianeta Terra, 2035


Il Dottor Alec Woodrow dell’università dell’Ohio in Columbus come ogni giorno da due anni, si apprestava ad indossare i suoi occhiali protettivi neri, in grado di schermare dalla luce del sole fino ad un intenso raggio laser puntato direttamente negli occhi. Quegli occhiali gli davano un aspetto che era una via di mezzo tra una mosca e uno sciatore. Vestiva quasi sempre in tuta, quindi poteva ricordare più uno sportivo d’alta montagna che una mosca che faceva jogging. Diceva che la tuta gli permetteva di muoversi più comodamente nel laboratorio. Non era certo un tipo che si alzava alle 6:00 del mattino per andare a correre prima del lavoro o che arrivava all’università in bicicletta o a piedi addirittura. Gli piacevano le comodità, e spostarsi sempre in macchina anche per portare la spazzatura in fondo alla strada la considerava una comodità. Del resto non era completamente un marziano sulla Terra degli anni 30 del ventunesimo secolo, qualcosa in comune con gli altri abitanti ce l’aveva. Casa e lavoro, per lui che su un lavoro poteva contare, spreco di imballaggi visto che non cucinava mai e mangiava sempre precotto, inquinamento dell’ambiente appunto per il fatto di usare la macchina in ogni momento e tenere il riscaldamento in casa eccessivamente alto 24 ore su 24 anche per le 18 ore che spesso passava in laboratorio. L’unica cosa che lo differenziava dalla popolazione mondiale, inconsapevole del proprio personale contributo alla fine del mondo, era lo scarso uso dello smartphone. Aveva anche lui un account su DayBreak ma non viveva per il mondo fatato fatto di bit. Lui viveva per dare un futuro alla razza umana.

Lavorava con la luce e con i magneti. Potentissimi magneti che teneva a -270°C costantemente bombardati da fasci di neutrini a frequenza ben precisa. Due anni prima era stato testimone di un curioso fenomeno apparso davanti ai propri occhi. Lavorando con magneti immersi nell’azoto liquido, un addetto alle pulizie entrò improvvisamente nel laboratorio convinto non ci fosse nessuno, e armeggiando con un mazzo di chiavi, probabilmente pensando di dover aprire la porta che invece non era inchiavata, fece cadere il portachiavi il quale includeva un piccolo puntatore laser, che al contatto con le dure mattonelle si bloccò acceso e rotolò verso il tavolo di Alec. Il dottore se ne accorse e lo raccolse. Casualmente il fascio passò tra i due magneti e notò che il puntino sul muro di fronte, da rosso cambiava colore e in base all’inclinazione del fascio la luce passava dal giallo al blu poi al viola e talvolta scompariva.

Alec diede la prima banconota che trovò in tasca all’inserviente per acquistare il puntatore e gli ordinò di andarsene immediatamente. Aveva appena scoperto come controllare un fascio di fotoni grazie a particolari proprietà dei magneti. Non lo sapeva ancora, ma stava riuscendo perfino a piegare lo spazio tempo.

L’ultimo progetto del dottore consisteva nel puntare il fascio laser verso un corpo lontanissimo (per adesso la luna) e riuscire a vederne la polvere superficiale come se fosse un astronauta chinato a toccarla. Il laser veniva generato da un dispositivo che concentrava la luce di un diodo luminoso in un cilindro metallico contenente rubino, la quale veniva potenziata da uno specchio posto ad una estremità e in grado di permetterle di uscire dal cilindro grazie ad un altro specchio semitrasparente. Con questo meccanismo si generava un sottilissimo fascio di luce concentrata. Con un sistema di specchi, questo fascio di fotoni veniva indirizzato verso l’esterno, in questo caso verso il cielo e ciò che incontrava lo poteva riflettere nel suo stesso percorso e tornare indietro verso un sensore tipo quelli fotografici ma molto più evoluto. Con i dati ricavati dal fascio di ritorno il computer elaborava l’immagine di ciò che il laser aveva incontrato e aveva fermato il suo percorso. In questo caso, prima di essere indirizzato verso lo spazio, il fascio laser passava attraverso un altro dispositivo contenente i magneti freddissimi e un generatore di neutrini a frequenza variabile, che ne permetteva il salto spaziotemporale. In questo modo tutto avveniva in tempo reale, si poteva aprire una finestra verso qualunque punto dell’universo, bastava direzionare il fascio verso il luogo di interesse e i magneti avrebbero piegato lo spazio tempo azzerando la distanza che la luce, seppur molto veloce, avrebbe invece coperto in migliaia di anni. Entro un mese avrebbe dovuto portare il prototipo alla ex Nasa, che ora si chiamava ISAS (International Space Administration of Salvation).

L’ISAS si stava occupando di trovare il modo di viaggiare nello spazio per portare un gruppo di esseri umani su un altro mondo al fine di salvare la specie da morte certa. La Terra non aveva più intenzione di tenersi questo virus addosso e rischiare di diventare come Marte. Il dottor Woodrow avrebbe trovato un pianeta adatto, e l'ISAS avrebbe portato un gruppo di esseri umani a bordo di arche spaziali su questo pianeta. Non importava quanto tempo ci avrebbero messo. La razza umana non sarebbe morta. Le arche erano già pronte, avevano iniziato a essere concepite quando dalla fine degli anni 2000 erano stati scoperti pianeti potenzialmente abitabili non troppo lontani dalla terra, e per il momento in cui questo pianeta avesse superato il punto di non ritorno. L’esperimento di Woodrow doveva dare dati certi e speranzosi.


Il progetto N. O. E. nacque all'inizio degli anni '10 del XXI secolo, ad opera di Massimo Fabbri, ricercatore quarantenne in campo aerospaziale dell'università della California, emigrato da un paesino del centro Italia una quindicina di anni prima. "Cervello in fuga" perché troppo talentuoso in un campo che in Europa era considerato ancora in fase di sviluppo.

L'idea era quella di progettare grandi navi spaziali, più simili a dei resort volanti, in grado di accogliere ciascuna inizialmente mille persone più equipaggio. Chiaramente non si doveva trattare di una vacanza, ogni passeggero aveva un compito ben preciso per l'approvvigionamento di risorse alimentari, coltivazione e produzione, riciclo dell'acqua dalle scorie umane o dal raffreddamento dei sistemi di propulsione per controllare la traiettoria, gestione delle risorse energetiche, energia dalle stelle, energia dalla materia oscura, vento stellare, generatori a isotopi radioattivi. Ma la cosa più geniale era stata l'idea di limitare la connessione alla rete delle social app. Queste nuove forme di interazione sociale avevano di fatto sostituito quasi completamente i rapporti sociali nella popolazione mondiale.

Su ogni arca c'era il modulo Vita, dove la gente avrebbe vissuto, lavorato e trovato svago, e il modulo Storage, il quale conteneva acqua, combustibili, sostanze chimiche, riserve di cibo.

Ogni astronave era dotata di 4 enormi vele, in grafene, sottilissime e resistentissime, ciascuna grande come 10 campi da calcio, che avrebbero sfruttato la spinta del “vento solare”, un flusso di particelle cariche emesse dall’alta atmosfera del sole, il quale avrebbe accelerato le arche fino alla velocità di circa 13.000 km/s e poi avrebbero sfruttato la spinta contraria della stella del sistema planetario scelto per frenare ed essere infine attratte gravitazionalmente dal pianeta e raggiungerne l’orbita. Le vele funzionavano anche da scudo contro le radiazioni cosmiche. L’accelerazione avveniva fino al confine con l’eliosfera, l’area del sistema solare in cui ha effetto il flusso del vento solare, poi la velocità sarebbe rimasta costante.

La progettazione di questo tipo di “propulsione” era iniziato da metà anni ‘90, tra le tante idee ed esperimenti su nuove astronavi più veloci che gli scienziati cercavano di realizzare. L’altro progetto sempre basato su vele, prevedeva che queste navi venissero “spinte” da un raggio laser situato sulla terra. Poco pratico e soggetto a diversi intoppi quali il movimento del pianeta e la seguente possibile oscurazione del raggio dovuta all’incrocio con altri corpi celesti.

All’inizio e per molti anni i prototipi realizzati prevedevano un peso irrisorio della capsula (meno di un chilogrammo) e una vela grande come un campo da basket. Poi si scoprì come il particolare orientamento e l’aggiunta di un numero maggiore di vele avrebbe permesso l’aumento esponenziale della massa della navicella lasciando immutata l’efficienza. Non solo, se all’inizio l’accelerazione poteva sembrare estremamente lenta, sulla stessa distanza una navicella di svariate tonnellate avrebbe raggiunto la stessa velocità di un’astronave di un solo chilo di massa.

Prima della scoperta del Dott. Woodrow si sarebbe andati a tentativi. Prima tappa Proxima b, pianeta roccioso distante 4 anni luce, conosciuto da più di 30 anni, orbitante intorno alla stella Proxima Centauri, della costellazione del Centauro. Per raggiungerlo le arche ci avrebbero messo poco meno di un secolo: un viaggio mai affrontato da nessuno prima d’ora nemmeno sulla terra a bordo di carovane. Neanche le sonde Voyager si trovavano in viaggio da tanto, ed erano solo poco fuori dal sistema solare. Una volta raggiunto il pianeta, una squadriglia di droni e rover sarebbero scesi in avanscoperta per esplorarlo almeno per 5 anni, ma se non fosse risultato adatto alla vita, le arche sarebbero ripartite verso il pianeta successivo.

La costruzione era avvenuta direttamente in orbita, con un programma da 10 lanci al mese per 4 anni con razzi riciclabili di una società privata.

Nel 2035 erano state completate 4 arche pronte al viaggio e 10 navette con 100 posti di capienza per portare le persone in orbita. Erano simili a dei comuni aerei da trasporto passeggeri dotati di due razzi riciclabili, che ad una altitudine di 40.000 piedi utilizzavano la forza di questi razzi per superare la stratosfera.

Con l'invenzione del dottor Woodrow avrebbero scelto il pianeta adatto ed effettuato un viaggio con destinazione sicura.

I passeggeri, a parte quelli dello staff tecnico, ovvero professionisti ed esperti in diversi settori, erano stati scelti partendo da un banalissimo sito internet: Heaven On A New Earth, www.heavenonanewearth.com. Doveva sembrare una di quelle iniziative new age per i fine-del-mondisti. Lo slogan sul sito diceva “Il mondo sta per finire. Diventa uno dei coloni che porteranno la razza umana su un altro pianeta. L’universo vuole te!”

Per essere ammessi bisognava registrarsi, caricare un breve videomessaggio e rispondere a due semplici domande stilate da esperti psicologi. Da queste si sarebbe capito chi fosse stato mentalmente stabile e dal video si sarebbe dedotto chi avesse goduto di buona salute e forma fisica. Infine, in base all’interazione degli utenti nel forum di discussione del sito, gli esperti avrebbero escluso quelli che, anche se rientranti nei profili ideali in base ai primi test, avessero rivelato un carattere poco consono alla convivialità e alla collaborazione reciproca. Haters e bestemmiatori sarebbero stati eliminati automaticamente pure dal sito. Tra migliaia di pazzi esaltati che si fossero iscritti al sito era necessario definirne il profilo psicologico dei più adatti. Una volta partiti non sarebbero tornati indietro. Psicologi, psichiatri e reparti di correzione mentale erano previsti in abbondanza sulle arche.

Tutto talmente ovvio e alla luce del sole che nessuno l’avrebbe preso sul serio, almeno fino a quando la convocazione dei passeggeri non fosse avvenuta e si sarebbero trovati in una base militare con una navetta spaziale pronta a partire.

Defezioni dell’ultimo minuto, fuga di notizie e crolli psicologici erano intoppi che gli scienziati sapevano di aspettarsi, ma per la buona riuscita della missione erano consci del fatto che l’elemento su cui dovevano maggiormente contare era quello più viscido alle formule matematiche e alle statistiche: la fortuna.

Il secondo sogno di Julia

Pianeta Kepler 2565b


Gli occhi di Julia si aprirono di scatto, ma questa volta non era buio. Poteva vedere quello che sembrava un cielo azzurro, velato di una sfumatura violacea, con due cerchi arancio nel centro. Più che sembrare di stare all’aria aperta, le sembrava che non ci fosse aria ma un odore come di cera permeava le sue narici. Non era a disagio, ma preoccupata che l'immobilità la potesse costringere a restare in quel luogo per sempre. Non percepiva il proprio corpo come nel sogno precedente, ma al contrario le sue emozioni non le permettevano di spostarsi, o di trovare un posto più confortevole. Tutto era statico, ma poi si accorse che la sua mano destra poteva muoversi. Alzò il braccio verso quel cielo che cielo non era e avvertì una sensazione di umido sulle dita. Se le guardò ed erano sporche, di colore, di vernice, e realizzò di aver lasciato il segno su quello che effettivamente era un quadro, un dipinto, una immensa opera d’arte. Ora si rese conto di essere non distesa su un prato ma in piedi davanti al quadro. Se guardava a destra o sinistra vedeva quel cielo infinito, e non riusciva a voltarsi per guardarsi alle spalle, come se avesse il movimento della testa limitato. Percepiva qualcosa, qualcuno, e la cosa la metteva ovviamente a disagio. Anche se la sensazione era quella di qualcuno molto lontano. Erano tante persone in un posto remoto, poteva immaginarsele come una folla ad un concerto, ma a luci spente, e vedeva nella sua mente migliaia di sagome nere. Era come un festival in un campo all’aperto, percepiva migliaia di persone ma in fondo potevano essercene molte di più.

La sua attenzione tornò al quadro e al punto che aveva toccato. Al posto delle ditate ora c’erano dei buchi e le poteva sembrare di vedere aldilà della tela. Allora tocco ancora il quadro nello stesso punto e questo incominciava a sbriciolarsi sotto la pressione delle sue dita. Continuò a strappare e lacerare il disegno fino a quando poté infilare la testa e vedere cosa c’era oltre. Sembrava un altro quadro. Iniziò a lacerare il primo fino a farci passare tutto il corpo e vide che il secondo quadro era simile ma con altri colori. Era sempre un paesaggio, ma questa volta c’erano delle montagne e un lago. Anche questo sotto la pressione delle dita si distruggeva, e allora l’ansia la fece iniziare a correre, a bucare quadro dopo quadro, e lei correva ancora più forte e alle sue spalle sembrava che tutta quella gente avesse iniziato a chiamare il suo nome, quasi che si trovasse mille metri sopra la folla e ne sentisse le voci che viaggiavano a cavallo del vento. Ad un certo punto, dopo esser passata attraverso l’ennesimo quadro, trovò un muro. Una musica sembrava arrivare da oltre il muro, ma non vi era alcun passaggio. Chiuse gli occhi per concentrarsi sulla musica e quando li riaprì stava suonando uno strumento a corda dal suono dolce come il canto di un uccello primaverile. Ora si trovava di fronte alla folla e realizzò che era quasi infinita, il pubblico si perdeva oltre l’orizzonte. Sul palco c’erano tantissimi musicisti e sentiva la pelle d’oca dall'emozione che la musica generava in lei. Sembrava che il concerto dovesse durare un tempo infinito e le sue emozioni si rigenerassero. I brividi che correvano lungo il suo corpo la fecero piangere. Serrò di nuovo le palpebre per liberare le lacrime ma non riuscivano a scorrere giù e colare lungo le guance, era come se si accumulassero nelle orbite oculari. Un attimo dopo si trovava effettivamente sott’acqua. Riusciva a respirare, ma quello che la preoccupava era comunque il non riuscire a tornare in superficie. Per quanto si dimenasse restava ferma a mezz’acqua Ora gli occhi le bruciavano come se fosse acqua salata e iniziò a preoccuparsi perché non poteva vedere nulla. Nel dimenarsi toccò qualcosa con la mano sinistra.
Questo qualcosa la trovò di nuovo e la afferrò. Era una mano unita ad un braccio forte che la tirò verso l’alto. Mosse anche l’altra mano fino a trovare anche lei qualcosa da afferrare. Era una persona che la stava traendo in salvo. Finalmente emerse in superficie, ma gli occhi le dolevano ancora, quindi con il tatto cercò il suo salvatore, lo abbracciò e si strinse al suo corpo. Non poté vederlo in viso ma provò di nuovo quella sensazione di sicurezza del sogno precedente. Non lottò più con la gravità che voleva riportarla sott’acqua e si lasciò andare a quell’abbraccio. Si rilassò fino a quasi addormentarsi avvolta da quel corpo maschile. Non si addormentò ma al contrario ora si svegliò. Si trovò seduta sul suo letto, con Temmi aggrappato ad uno degli stralli del pesante lampadario che la fissava infastidito dall’improvvisa sveglia. Un po’ stordita, si guardò le dita alla luce che filtrava dalla strada, e non vide alcun colore, né era bagnata da nessuna parte. Di certo un sogno è un sogno e non lascia segni nella vita reale. In verità ora era perfettamente consapevole di quell’abbraccio e che quella persona da qualche parte esisteva veramente.

L'esperimento del Dott. Woodrow

Columbus, Ohio, Pianeta Terra


In una calda sera di maggio, il Dott. Woodrow si trovava ancora nel suo laboratorio antistante il magazzino in cui erano sistemate le apparecchiature pronte per il test. Al computer i test virtuali continuavano a fornirgli dati non positivi riguardo il fascio di neutrini. Come se il contenitore dei magneti super freddi interagisse con altre particelle. “Tempesta solare” pensò. “Le radiazioni cosmiche sono molto intense in questi giorni” pensò ancora. “Se non controllo correttamente il fascio di neutrini, i magneti non faranno bene il loro lavoro e il raggio laser non ci riporterà le informazioni in tempo reale”. Si ricordò allora dei pannelli di piombo arricchito con osmio che aveva utilizzato in passato per schermare appunto particelle subatomiche e radiazioni elettromagnetiche. Avrebbe dovuto soltanto recuperarli e posizionarli intorno al generatore di neutrini e al contenitore di magneti super freddi. Ma erano le 11 di sera e l’esperimento doveva cominciare l’indomani alle 6 del pomeriggio. Avvisò subito tramite una mail il responsabile del magazzino dell’università di fargli trovare un muletto o un camioncino e qualche forte inserviente per trasportare i pannelli fino al luogo dell’esperimento, ovvero la terrazza sopra l’edificio F dell’università, quello adibito alle belle arti, poiché era l’unico con uno spazio abbastanza ampio per contenere le apparecchiature, lo staff tecnico e i responsabili ISAS del progetto N.O.E.

Woodrow sapeva già che non avrebbe chiuso occhio quella notte. Così pensò di passare il tempo nel laboratorio a giocare con Universum alla scoperta della nostra galassia. “Ci sono tante galassie nell’universo, perché fermarsi a una?” sorrise ma alla fine decise che guardarsi una serie TV sul divano del laboratorio l’avrebbe distratto di più.

Si svegliò alle 7,00 dopo 4 ore di sonno e iniziò a mobilitarsi per organizzare l’esperimento. Lo staff sarebbe arrivato al magazzino alle 8,30. Avrebbero trasportato le attrezzature all’edificio F (non erano in realtà così ingombranti, ma erano costituite da diversi moduli: il generatore di neutrini, il contenitore dei magneti super freddi con la camera curvatrice dello spazio-tempo, il pesante laser, alcuni computer per il controllo dei dati, l’interfaccia audio-video, le bombole di azoto per raffreddare sia il laser che per ricaricare i magneti e un grande monitor 65” per vedere ciò che il raggio laser avrebbe raggiunto), e avrebbero testato che tutto funzionasse correttamente. In aggiunta al programma stabilito, avrebbe dovuto montare i pannelli di piombo/osmio un po’ alla buona, con una sorta di cavalletti e posizionati alla giusta inclinazione per sortire il maggior effetto.

La scelta dell’oggetto da puntare era caduta sulla sonda Voyager 1, il manufatto più lontano esistente: più di 22 miliardi di chilometri dalla terra, e, al contrario della Voyager 2, “visibile” dall’emisfero boreale. Per inviare un segnale radio tradizionale e ricevere la risposta sarebbero occorse 40 ore. Mentre con l’invenzione del dott. Woodrow, la comunicazione sarebbe stata istantanea, nel caso specifico sul monitor sarebbe apparsa un’immagine della sonda immediatamente all’accensione del laser.

Sarebbe stata necessaria almeno un’ora per puntare il raggio e centrare l’obiettivo (considerando che la sua posizione era stata monitorato con precisione nelle ultime settimane). Per cui tutto doveva essere pronto e montato almeno 3 ore prima dell’inizio dell’esperimento. Alle 6:06 p.m. lo staff tecnico era in posizione, il monitor era acceso ma era nero come la notte eccetto alcuni numeri sul bordo superiore dello stesso, cioè informazioni sulla messa a fuoco, sulla lunghezza d’onda del raggio laser, sulla sua intensità, sulla distanza percorsa (anche se questo era dovuto ad un calcolo, perché per quanto lo riguardasse, il raggio laser avrebbe percorso soltanto la distanza di un metro, dall’apertura del cilindro generatore fino al punto tra i magneti in cui lo spazio tempo veniva fatto coincidere con il luogo di destinazione del raggio) e sulle coordinate.

«Buonasera a tutti, benvenuti a questo primo esperimento sul funzionamento di Light Beyond The Stars.» disse solennemente il dottor Woodrow.

E qui seguì una dettagliata spiegazione sul funzionamento dell’apparecchio e di cosa avrebbero visto.

Il dispositivo aveva l’aspetto di un cono irregolare, con la parte rivolta verso il cielo più larga costituita da un materiale scuro dal quale uscivano una miriade di fili elettrici, che andava poi a restringersi fino a metà della sua lunghezza, per poi diventare un cilindro di metallo dorato. Era lungo circa 2 metri e il punto più largo aveva un diametro di 1 metro circa. La parte larga era costituita dai magneti e dalla camera curvatrice, mentre la parte sottile era il dispositivo generatore del raggio laser. I pannelli schermanti erano posizionati in modo da ricoprire l’intero dispositivo, lasciando alcune fessure per l’uscita dei cavi. Intorno si trovavano i tecnici con i loro terminali e altre scatole scure collegate tutte tra loro. Il dispositivo di puntamento avveniva in remoto.

A quei tempi entrambe le Voyager avevano esaurito la propria energia, non era più possibile comunicare con loro via radio. L’ultima comunicazione ricevuta risaliva al 2024, quindi per una buona riuscita dell’esperimento gli scienziati avevano dovuto calcolarne la posizione in base ai dati raccolti in tutti quegli anni di viaggio.

Il monitor iniziò a mostrare alcune immagini confuse mentre il dispositivo si muoveva, la precisione del fascio di luce e il suo spessore di qualche frazione di millimetri aveva il limite che oltre una certa distanza l’immagine non poteva essere nitida, questo perché la base da cui veniva emesso subiva le vibrazioni della rotazione terrestre. Un’oscillazione di un centesimo di millimetro equivaleva a migliaia di anni luce se il raggio veniva direzionato verso lo spazio vuoto. Puntare nello spazio vuoto e vedere nero significava che l’universo era infinito. Ma queste considerazioni mistiche non avrebbero dovuto essere tenute in considerazione in questa sede.

L’immagine ora raffigurava qualcosa, una superficie grigia. I tecnici guidati dal dott. Woodrow regolarono il campo visivo, (gli era possibile con una lente virtuale costituita da un campo magnetico posto nella camera di curvatura) allontanando la visuale fino a mostrare la grande antenna parabolica del Voyager.

Tutta la folla presente emise in coro un “ohhh” seguito da un applauso. I dati sul bordo superiore del monitor erano in continuo ricalcolo, i numeri andavano avanti e indietro con tale velocità da non distinguerne neanche uno. Era il dispositivo che automaticamente seguiva la sonda nel suo allontanamento dal sistema solare verso lo spazio profondo e nel movimento di rotazione terrestre.

L’immagine era estremamente nitida, non vi erano disturbi o sfocature, sembrava di avere la sonda lì sul terrazzo davanti al dispositivo mentre veniva ripresa da uno smartphone.

I terminali raccoglievano ogni tipo di informazione e registravano tutto su tera e tera di hard disk.

«Grazie a questa invenzione, potremo osservare, come uno spettatore in prima fila, gli angoli più remoti del nostro universo, in cerca di un pianeta abitabile verso cui guidare le arche della salvezza del genere umano. Ma le applicazioni sono innumerevoli. Sto lavorando alla possibilità di inviare informazioni audio e video, non solo “vedere” a distanze intergalattiche, ma anche mandare messaggi ad altri esseri viventi intelligenti, se ne troveremo. Chiaramente il dialogo non sarà facile, innanzitutto per la lingua che parleranno, secondo perché le nostre comunicazioni le riceveranno in tempo reale, ma loro non potranno parlarci altrettanto velocemente. Potremmo spiegargli come realizzare questo macchinario, se avranno le conoscenze tecnologiche per farlo in tempi non lunghi. Solo da quello che vedremo con i nostri occhi potremo trarre conclusioni; solo da quello che vedremo dovremo basarci per prendere la decisione più importante per il genere umano. Niente analisi alle onde radio, infrarossi o ultraviolette, perché non potremo ricevere dati di quel tipo. Ora punteremo il dispositivo verso la luna e vi mostreremo l’impronta degli astronauti dell’Apollo 11.»

Prima di mettersi all’opera intervenne un uomo in uniforme militare che gli pose una domanda:

«Dott. Woodrow, sono il capitano Frank Jorgensen, sarò il comandante di una delle arche. Siete veramente convinto che scegliere un pianeta già popolato e tecnologicamente avanzato possa essere la scelta giusta? Vi ricordo che non è stato veloce colonizzare gli Stati Uniti D’America e spazzare via gli indigeni, ma è stato piuttosto facile. Consiglierei di scegliere un pianeta con esseri animali non intelligenti oppure razze tecnologicamente arretrate come furono gli indiani d’America o gli indios quando gli europei raggiunsero il nuovo mondo.»

«Certamente, abbiamo uno staff di cervelloni e professoroni che valuteranno tutti i parametri per la scelta del pianeta ideale, chiaramente anche basandosi sulla distanza. Ci metteremo al lavoro già da domattina.» rispose l’inventore.

Nella sua testa il Dott. Woodrow pensò: «Spero con tutto il cuore che ci siano tanti mondi lassù da poter permetterci il lusso di scegliere…»

La capanna sul lago

Namerag, pianeta in orbita ad un sistema stellare sconosciuto


La prima alba è come una specie di prima sveglia. La debole luce che filtra dalle finestre permette alle persone di aprire un occhio e girarsi dall’altra parte per iniziare la fase di risveglio e posticipare l’alzata di mezz’ora. Cioè fino a quando la seconda alba inonda di energia il 75% del pianeta destando miliardi di fiori che si aprono a ventaglio riflettendo la luce in migliaia di colori. Si alza una leggera brezza che muove miriadi di particelle dai fiori verso gli altri esseri vegetali per la riproduzione. Gli animali escono dalle loro tane e si bagnano di luce fino al termine della fase di risveglio. Francius giocava in riva al lago con la sua doppia ombra domandandosi perché la seguisse ovunque andasse. Quando si era stancata di correre si gettava sul prato annusando i tanti profumi della natura.

«Francius, è tardi, bisogna andare a scuola!»

«Arrivo subito!»

La mamma di Francius preparò i libri di musica e l’astuccio con i pennelli, sistemò la merenda e uscì dalla porta di casa aspettandola vicino all’auto spinta da energia solare. Si muoveva lentamente il mezzo sulla strada, e in circa in dieci minuti raggiunsero la scuola. Il grande edificio in legno di Quadd (duro e robusto come una quercia) era dipinto con scene storiche della regione in cui si trovava, la regione di Igghius. Era alto due piani, e sul terrazzo l’orchestra dei ragazzi del 3° ciclo suonavano il benvenuto ad un nuovo giorno ai ragazzi che si apprestavano a raggiungere le proprie aule.

La maestra di musica, la signora Zardem, accolse i bambini con uno strumento a corde che si suonava da seduti, posizionando una mano sulla parte stretta, e pizzicando 7 corde con l’altra mano. Alla lavagna c’era un disegno stilizzato di un paesaggio.

«Buongiorno bambini. Questo strumento si chiama Cantos; per riprodurre le 14 note della scala Solare, dovete imparare a riconoscere i simboli rappresentanti le note da questo disegno.»

E spiegò come in ogni tratto di gesso, o sezione del disegno si celassero le note per dare vita musicale al paesaggio raffigurato.

Francius immaginò che un giorno avrebbe imparato a suonare uno strumento musicale e avrebbe tenuto un concerto davanti alla sua casa, suonando la melodia formata dalle note che sarebbe riuscita a vedere tra le linee, forme, sfumature, colori del paesaggio di fronte ai propri occhi.

Dopo la lezione di musica, ci fu quella di storia. Una delle materie preferite da Francius, nonostante il professor Gavedanus non fosse un grande oratore. Diceva quello che doveva dire in modo conciso, con concetti brevi. Sicuramente sceglieva bene le parole perché i bambini seguivano senza problemi e portavano a casa la materia con profitto. Era per questo motivo che prima di parlare stava in silenzio qualche istante, per utilizzare le frasi più chiare possibili.

L’argomento di oggi era “le popolazioni prima della scoperta dell’argento”. Il prof raccontò come migliaia di anni prima le antiche popolazioni rendevano omaggio ai due soli che chiamavano Rag e Ragen, costruendo sempre due templi gemelli in ogni insediamento. Nel tempio del dio Rag offrivano quotidianamente doni come frutta, pitture colorate, strumenti musicali. Mentre nel tempio del dio Ragen si riunivano a pregare e gettavano nel fuoco al centro del tempio (il quale aveva un’apertura nel soffitto) pezzi di stoffa in cui scrivevano le proprie preghiere.

Ogni 20 giorni locali circa, Rag eclissava Ragen e viceversa. L’intero fenomeno durava un paio giorni, il culmine, cioè quando si vedeva solo un sole nel cielo, invece durava poco meno di un giorno. Il periodo veniva chiamato “il riposo della stella”, e la popolazione lo passava dipingendo e cantando per quasi tutto il tempo. Durante la festa la gente ballava per tenersi calda visto che essendo abituati all’energia di due soli, le temperature scendevano in maniera importante.

Al giorno d’oggi l’evento si festeggia ancora, più o meno allo stesso modo. In ogni zona del pianeta, anche quelle in cui il fenomeno era meno “totale” e si parlava più di eclissi parziale, le usanze erano simili ma cambiavano canti, danze e musiche.

Un fenomeno ben più raro era quando durante “il riposo della stella” veniva a trovarsi tra i soli e il pianeta anche l’unico satellite naturale, Dagen, il quale essendo molto lontano e molto piccolo oscurava una minima parte della luce di Rag o Ragen. L’evento veniva chiamato “giorni del rifugio” in cui la gente da sempre era abituata a non stare in giro e rimanere a casa, non usciva neanche per le commissioni più importanti o per andare a scuola o al lavoro. Il professore raccontò che l’usanza di chiudersi in casa era dovuta ad una leggenda. Tale storia narrava che al centro del sole si apriva una voragine nera dal quale uscivano spiriti malvagi e solo i maschi più coraggiosi dei villaggi potevano rispedirli nell’aldilà. Stavano lontani da casa per qualche giorno e purtroppo non tutti sempre tornavano.

Per fortuna nei tempi attuali non succede più nulla del genere, avendo studiato e compreso il fenomeno, ma l’usanza è rimasta, anche dopo migliaia di anni.

Francius si incantava spesso quando il professor Gavedanus parlava, questa volta si immaginava di sposare un valoroso ragazzo che sconfiggeva gli spiriti del male.

Al piano di sopra, due classi più verso la palestra rispetto l’aula di Francius, c’erano i ragazzi più grandi, quelli che si apprestavano a sostenere gli esami di fine corso. Le materie erano simili, ma chiaramente più dettagliate e impegnative: arte in ogni sua forma, pittura, musica, fotografia, scrittura, recitazione, ma anche Storia della Tecnologia. Tre anni prima, al livello inferiore di istruzione, si imparava come ad un certo punto del passato, i governi di alcuni stati del nord, affrontarono un problema tanto tragico quanto preoccupante per il futuro del mondo.

Prima della scoperta dell’energia elettrica, nelle corte notti si illuminavano le strade e le case bruciando le polveri di un minerale chiamato Ragenezio (sempre in onore ai soli). Esauriti i gas infiammabili che sprigionavano le polveri quando private di aria, i residui venivano smaltiti gettandoli in apposite cave poste fuori dalle città. Quando la cava era piena (circa un volta ogni 10 anni, in base all’utilizzo quindi alla grandezza della città) questa veniva ricoperta di terra e dimenticata. Una volta scoperta l’energia elettrica, dei giovani imprenditori decisero di sfruttare la combustione del Ragenezio per produrre elettricità e alimentare i nuovi macchinari industriali, che fino ad allora avevano una produzione limitata visto che per alimentarli erano necessarie le forze naturali come l’acqua che scorre, il vento che soffia e il calore concentrato tramite lenti della luce di Rag e Ragen. Questi imprenditori costruirono grosse centrali energetiche e fecero arrivare grossi quantitativi di Ragenezio. In pochi anni si arricchirono perché il loro brevetto veniva richiesto da tutte le zone del pianeta. Ovviamente il materiale esausto riempiva le cave non in 10 anni, ma in meno di 1; praticamente le città erano circondate da cave e le campagne erano degli scavi aperti.

La gente lavorava per estrarre il minerale, e riceveva in cambio energia e denaro per comprare quelle che le industrie producevano.

Dopo pochi anni dall'inizio della rivoluzione industriale avvenne quel brutto incidente.

Una falda acquifera sotterranea cambiò il suo corso dopo un terremoto di media intensità e finì per passare in mezzo ad una cava, per poi ricongiungersi al fiume che scorreva in mezzo alla città di Yosel.

L’acqua che trasportava particelle di Ragenezio esausto, prima di riversarsi nelle acque del fiume, incontrò uno strato di terriccio salino, facendo reazione e contaminando l’acqua con micidiali elementi chimici. Da questo fiume sia la popolazione che le bestie si abbeveravano. Nel giro di un mese la popolazione era decimata, le persone morivano improvvisamente, dopo dolori allo stomaco, paralisi di arti, febbre alta e infine arresto cardiaco. Una commissione sanitaria intervenne e dopo le opportune verifiche stabilì la causa della tragedia e ordinò provvedimenti immediati.

Per un anno vennero chiuse tutte le centrali energetiche e il Ragenezio fu bandito, facendo ripiombare la popolazione globale indietro di più di due secoli. Nelle brevi notti nessuno usciva di casa, e per illuminare le case si usavano piccoli lumini a legna. In ogni stato si svolgevano riunioni incessanti coordinate da una delegazione di studiosi internazionali per trovare subito una soluzione per la produzione di energia elettrica.

«Il progresso non si può fermare.»

«Dobbiamo usare gli oli e i gas che fuoriescono dalle grotte delle terre equatoriali!»

«Limitiamo la produzione industriale. Tutto ciò che non è necessario verrà fermato. Lasciamo un attimo l’arte da parte. Serve acciaio, infrastrutture, i mezzi di trasporto devono andare veloci!»

«I ragazzi quasi adulti devono smettere 5 anni prima di andare a scuola, ci serve manodopera per scavare e trovare altri minerali da usare come combustibile».

«Ai poli vivono migliaia di animali che si scaldano con i propri grassi. Ricaviamo combustibile da questi grassi!»

«Smantelliamo intanto le centrali.»

Mentre queste e altre idee fuoriuscivano dalle menti dei più illustri scienziati mondiali, Xoma Hyttster, un giovane ragazzo appena diplomato nell’ultimo ciclo scolastico obbligatorio, scrisse una lettera indirizzata ad un suo ex professore, il quale collaborava spesso in qualità di consulente con lo staff tecnico statale.

La lettera iniziava più o meno così:

“Immaginate di trovarvi in riva ad un qualunque lago di montagna, con i pendii ricoperti da mille varietà di fiori e il loro profumo vi inebria la mente, e in lontananza l’orchestra della scuola suona una musica dettata dalla sensazione del momento. Avete in mano un pennello e state riportando le vostre emozioni e i vostri pensieri su una tela. Il pane e la frutta vi saziano e la fresca acqua di fiume vi disseta. Di cos’altro avete bisogno?".

Poi proseguiva circa così:

“siete preoccupati di trovare una fonte di energia che illumini le strade durante le brevi notti? Vi faccio una semplice domanda: cos’è che illumina le strade durante le lunghe giornate?”

E così non ci fu più da discutere. La lettera arrivò al professor Trauner, che la passò al sindaco Giovi, il quale la spedì al ministro Ruttler, e in breve stimolò l’ingegno degli scienziati.

«Tutto quello di cui hanno bisogno gli esseri viventi glielo fornisce il pianeta in cui vivono, che in cambio vuole l’unica cosa che non sa fare da sé: l’arte. Gli esseri viventi devono vivere in armonia con la natura e arricchirla con i frutti del proprio ingegno.» Il professor Grotter concluse la lezione pochi istanti prima del suono di cambio ora.


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